Montebello della Battaglia – Le Colline
- Palazzo Bellisomi, sec. XVIII (Progetto architetto Francesco Croce)
- Villa Serpi Gloria, sec. XVIII
- Antico Caseggiato famiglia Del Conte (portone e case limitrofe costruite nel 1762 dalla famiglia pavese Giorgi)
- Soms (Società Operaia Mutuo Soccorso), inaugurata nel 1913
- Villa Veniali, sec. XIX (ospitò Edmondo De Amicis)
- Villa Lomellini, sec. XVII (ora Opera Don Luigi Orione) 1
Montebello della Battaglia
PALAZZO BELLISOMI ( fonte Gian Pietro Scaglia )
Sec. XVIII
Nella 2° metà del 1600 il capitano Agostino Bellisomi, membro di una delle più prestigiose famiglie nobiliari pavesi, acquista tramite asta giudiziaria, una casa di villeggiatura con unito oratorio, dei fabbricati rustici e molti terreni a Montebello. Questa proprietà apparteneva ai coniugi pavesi Ippolito Sacco e Caterina Merzagora, protagonisti di un notevole dissesto finanziario ed era pervenuta loro, per eredità, dalla famiglia Bozzolo. Nel 1698, alla morte del capitano Agostino, celibe, la proprietà è da questi lasciata in eredità al marchese Pio, figlio di suo fratello Annibale e feudatario di Frascarolo.
Pio Bellisomi muore nel 1726 lasciando erede il figlio Gaetano, appena diciassettenne. Questo giovane marchese è una persona di vasta cultura. Viaggia molto, visita diverse capitali europee e soggiorna parecchio tempo a Parigi dove conosce esponenti dell’illuminismo, movimento filosofico allora in auge. Sempre a Parigi, nel 1733, sposa la nobile Maria Teresa Corselle de Percy, nipote del maresciallo di Francia, Vauban.
Nel 1743 decide di costruire a Montebello l’attuale villa sull’area della vecchia casa di campagna, da demolirsi. Incarica il famoso architetto Francesco Croce di redigere il progetto e subito iniziano i lavori, ma la guerra di successione austriaca ed il conseguente passaggio dell’Oltrepò Pavese dal Ducato di Milano al Regno Sabaudo, ne rallentano l’esecuzione e soltanto nel 1747 essi saranno portati a termine. Contemporaneamente, purtroppo, l’eclettico marchese moriva a soli 37 anni.
Gaetano Bellisomi aveva due figli: il primogenito Pio, il quale ereditò interamente il notevolissimo patrimonio paterno ed il secondogenito Carlo destinato alla carriera ecclesiastica. Questi nominato cardinale, nel Conclave del 1799/1800, non fu eletto Papa per il solo fatto che l’Austria pose il veto nei suoi confronti.
Con il marchese Pio, la famiglia Bellisomi raggiunge l’apogeo della sua potenza economica. Dalla morte di questi, avvenuta nel 1813, periodo durante il quale il Codice Napoleonico aveva abolito il “maggiorasco” (istituzione con la quale il patrimonio immobiliare delle famiglie nobili era indivisibile e riservato al primogenito), inizia una lenta parabola discendente. Infatti, il gran patrimonio famigliare sarà diviso, con atto notarile del 2/11/1813, fra cinque fratelli e due sorelle.
La villa di Montebello andrà in eredità al quartogenito Giuseppe (1778-1844), Cavaliere Gerosolimitano ed alla sua morte, al proprio al figlio Luigi.
Era questi un “pezzo d’uomo” di quasi 2 metri di statura ed a Montebello bonariamente lo chiamavano “al Marchison”. Esistono ancora alcune sue foto scattate attorno al 1860.
Per ben 25 anni – un vero record – è stato Sindaco del paese. Morì il 3 giugno 1893 a Montebello ed ancora poté usufruire del privilegio di sepoltura nella chiesetta della sua villa (che fino agli anni ‘950 era da tutti i montebellesi esclusivamente denominata “ il Palazzo “).
Al di lui figlio, marchese Giuseppe (don Peppino) il dolore e l’umiliazione di avere dovuto vendere l’avita dimora al termine della 1° guerra mondiale. Egli morirà nel novembre del 1920, estinguendo la linea maschile dell’antichissimo casato pavese.
Pertanto, dopo circa 250 anni di possesso da parte dei marchesi Bellisomi (una delle più storiche famiglie nobiliari lombarde), al “Palazzo” entrava il nuovo proprietario sig. Bertollo, un ricco commerciante che nonostante abbia in seguito subito notevoli rovesci finanziari, vi abiterà fino al termine della 2° guerra mondiale, anche se la villa già da parecchi anni era passata in proprietà della società Immobiliare Della Torre.
Negli anni ‘950 il titolare di questa società, sig. Zamara, genovese, la restaurò notevolmente e vi trascorse periodi di villeggiatura.
Dalla seconda metà degli anni ‘70 la villa è proprietà della società Libarna Gas, la quale parzialmente l’adibisce ad uffici.
Lo stato di conservazione è attualmente ancora buono.
Montebello della Battaglia
VILLA SERPI-GLORIA ( fonte Gian Pietro Scaglia )
Sec.XVIII
Nella parte alta di Montebello, dove la salita di Via Mameli termina in uno “slargo” chiamato in dialetto “al Piasò”, sorge una bella ed armoniosa villa di campagna, formata da un corpo centrale arretrato con due ali laterali più basse che racchiudono il piccolo giardino antistante. Sul retro invece si apre un ampio parco che spazia verso la campagna circostante.
Grazie a documenti tuttora esistenti, sappiamo con certezza quando e perché la villa fu costruita.
Eravamo nel 1743. Nei limitrofi fabbricati (attualmente di proprietà Franchini, Girardelli) a levante del parco suddetto, viveva da secoli la famiglia Delconte, anticamente feudataria del paese ed in seguito residente a Pavia e composta di notai, giureconsulti ed ecclesiastici, sempre però presente a Montebello in quanto luogo di villeggiatura e di proprietà agricole.
Donna Teresa Delconte, figlia del capitano Giuseppe, ha sposato attorno al 1690 il N.H. Giovanni Nicolao Giorgi, pure d’antichissima famiglia pavese, dal quale ha avuto quattro figli. E’ morta vedova piuttosto anziana, il 23-10-1745.
Il primogenito ed erede Gaspare (1694 – 19/12/1752) decide di ampliare e ristrutturare i fabbricati materni, che però sono in un sol corpo con quelli dei cugini Delconte. Allora, nel 1743, “don” Gaspare s’impegna a fare costruire un palazzo nuovo sul terreno a ponente dei suoi fabbricati a beneficio dei detti cugini. Si stende un atto notarile datato 1°Aprile, fra lui ed i fratelli Delconte, Don Giacomo Antonio, Arciprete della Cattedrale di Pavia e “don” Pio, dottore in legge.
Fra i 14 capitoli dell’atto, uno fissa il termine dei lavori entro la fine del 1748. Inoltre è a spese di Gaspare il solo corpo centrale; qualsiasi altra aggiunta, quali le basse ali laterali, saranno a carico dei fratelli Delconte. E’ questa è la storia della nascita della villa.
“Don” Pio Delconte si ritrova in seguito unico proprietario del fabbricato.
Vi trascorre le estati ed ultra ottuagenario scrive al Vescovo di Piacenza perché gli conceda di fare celebrare messa nel suo oratorio che possedeva negli attuali fabbricati Gatti, in via Savonarola.
Il figlio Vincenzo è Notaio, sposa Barbara Capsoni ed alla morte del padre eredita la villa di Montebello, ma muore a soli 33 anni nel 1805. Il proprio figlio Pio (stesso nome del nonno) sarà l’ultimo Delconte proprietario di detto fabbricato. “Don” Pio è giureconsulto, ossia avvocato e sposa Marianna Porcara.
A Pavia vive nel palazzo detto “del Principato” (attualmente all’inizio di Corso Cavour, dove è lo studio fotografico Tollini). E’ proprietario di molti terreni e fabbricati sia a Montebello sia in altri comuni. Ha due figlie, Isabella e Gerolama
Sopratutto da anziano trascorre parecchio tempo a Montebello, dove è anche consigliere comunale. Muore il 7-6-1864 ad anni 83 e con lui termina definitivamente l’antichissima casata dei Delconte, primi feudatari del paese.
Da allora la villa è abitata dalla figlia Gerolama e dal proprio marito, il nobile Giuseppe Cuttica di Lampugnani, capitano di cavalleria nell’esercito austriaco ed ora in pensione. Non hanno figli. La sorella Isabella è invece già defunta.
Aveva sposato un certo Bosisio ed aveva avuto tre figlie, una delle quali sposò l’ing. Luigi Venco, la cui famiglia ha posseduto fin verso la fine del secolo scorso la cascina “Roveda”.
Dopo la morte di donna Gerolama, avvenuta nel 1885, gli eredi vendono la villa nel 1889 ai conti Enrico e Fanny Mannu Serpi, famiglia nobiliare d’origine sarda.
La villa viene restaurata e sono abbattuti i fabbricati rustici che esistevano a levante di essa e formavano con una delle due ali tuttora esistenti, un quadrilatero che delimitava un cortile interno, al quale si accedeva attraverso un portone di legno sormontato da un arco. Lasciano soltanto la scuderia con soprastante fienile ed una piccola casetta limitrofa.
I Serpi risiedevano a Genova ed avevano comprato la proprietà di Montebello grazie all’amicizia che li legava ai marchesi Lomellini e Serra, pure loro genovesi.
I conti avevano tre figli : Gianni, che vivrà tutta la sua esistenza di rendita, Beppe farà invece la carriera diplomatica e sarà Console Generale in parecchie città europee, mentre Maria sposerà il conte Carlo Gloria. Ed è così che i Gloria arrivarono a Montebello, dove villeggeranno, unitamente ai Serpi, fino agli inizi degli anni ‘980.
I conti Gloria sono piemontesi e risiedono a Torino. Il conte Carlo è stato aiutante di campo di Re Vittorio Emanuele 3° e generale di Corpo d’Armata.
Morì poco prima della 2° guerra mondiale. Pure suo fratello Alessandro fu generale di Corpo d’Armata, partecipò a parecchie guerre e cessò di vivere nel 1970 in Genova, ad 87 anni. I Serpi (entrambi scapoli) si sono invece estinti con la morte del conte Beppe, nel 1960. Qualche anno dopo l’improvvisa scomparsa del conte Alessandro Gloria (figlio di Carlo), avvenuta nel 1981, la villa, a quasi un secolo dall’acquisto, fu dalla moglie Fernanda de la Forest de Divonne e dai figli, venduta alla società Finiper, la quale, dopo averla completamente restaurata, la usa attualmente come uffici.
Montebello della Battglia
VILLA VENIALI
Sec.XIX
Il palazzo si trova nella parte alta del paese ed il parco degrada dolcemente verso levante, circondato su tre lati da strade pubbliche. Il fabbricato è composto da una parte molto antica e di tipo agricola a levante, unita ad altra ottocentesca e di foggia signorile verso ponente.
La parte di tipo agricola, unitamente a quella contigua attualmente posseduta dalla famiglia Nobile, è quanto rimane dell’antico cascinale, un tempo chiamato “San Damiano”, in quanto originariamente apparteneva al Monastero dei SS.Cosma e Damiano alla Scala di Milano (dell’ordine dei Frati Girolomini).
E’ di probabile costruzione secentesca.
Nel secolo successivo il cascinale in seguito a permuta, passa al locale Monastero dei SS.Gervasio e Protasio, sempre dell’ordine dei medesimi Frati. Nel 1745, per un’altra permuta, i fabbricati sono proprietà del marchese Gaetano Bellisomi. Evidentemente la permuta è un sistema molto diffuso a quei tempi in quanto nel 1749, per un ennesimo scambio di proprietà immobiliari, “San Damiano” appartiene al N.H. pavese Gaspare Giorgi.
Nel 1824 don Pietro Martire Beccaria Giorgi, pronipote ed erede di don Gaspare, vende la Cascina, unitamente a molte altre sue proprietà, al Collegio Gesuitico di Genova.
Il 5 marzo 1848, Re Carlo Alberto espelle i Gesuiti, espropriando tutte le loro proprietà e così anche “San Damiano” passa al Demanio del Regno Sardo-Piemontese.
Nel 1854, quando le proprietà demaniali sono messe in vendita, il sig. Gaspare Bianco, ex Agente dei Gesuiti a Montebello, unitamente al palazzo dell’ex asilo infantile e case limitrofe sulla piazza della Chiesa ed a parecchi terreni, acquista anche “San Damiano” (così ancora lo chiamavano verso fine ‘800).
Il sig. Bianco è un piemontese nato nel 1807 presso Chieri. E’ giunto a Montebello attorno al 1830 come agente dei Gesuiti, che qui possedevano a quei tempi, oltre 5000 pertiche di terreni, con parecchi cascinali e dimoravano
nell’attuale caseggiato Franchini, Girardelli.
Nel 1856/57 Gaspare Bianco costruisce accanto all’antica cascina, un bel palazzotto signorile, con ampio parco e frutteto antistanti, dando al complesso l’aspetto di una villa di campagna. L’ex agente dei Gesuiti ha sei figli, tre maschi e tre femmine. La figlia Luigia (1836-1897) è stata per 39 anni maestra nella scuola elementare di Montebello.
Gaspare Bianco, che per diversi anni fu anche consigliere comunale, è morto in seguito ad una caduta, il 3/5/1859 a soli 52 anni.
Qualche anno dopo la morte di sua moglie Carlotta Fasano, avvenuta nel 1885, i figli affittavano nei periodi di villeggiatura parte della villa al professore Francesco Veniali (1828-1904), Provveditore agli Studi in pensione ed al di lui figlio comm. Giacomo, revisore della Camera dei Deputati.
Più di una volta la famiglia Veniali ha avuto in quel periodo ospite a Montebello, lo scrittore Edmondo De Amicis e pare che proprio in occasione di questi soggiorni, al romanziere venne l’idea di scrivere il celebre racconto della “Piccola vedetta lombarda”.
Nel 1899 Stefano e Luigi Bianco si trasferirono a San Cristoforo, presso Silvano d’Orba, dove avevano ereditato dal loro padre Gaspare, una proprietà e vendettero la villa al comm. Giacomo Veniali.
Alla morte di questi, avvenuta nel 1905, il figlio ing. Giorgio ne divenne proprietario e pur dimorando a Roma, ogni anno trascorreva con la famiglia le proprie vacanze a Montebello.
Il suo secondogenito, l’avv.Alberto è stato il primo sindaco del paese nel 1945 dopo la Liberazione, mentre il primogenito Giacomo era medico. I figli di questi, sono gli attuali proprietari.
La villa, poco frequentata dopo la morte dell’ing. Giorgio, necessiterebbe di un completo restauro.
Edmondo De Amicis , Cuore , La piccola vedetta lombarda , 1889
Dagli Italiani contro gli Austriaci, in una bella mattinata del mese di giugno, un piccolo drappello di cavalleggieri di Saluzzo andava di lento passo, per un sentiero solitario, verso il nemico, esplorando attentamente la campagna. Guidavano il drappello un ufficiale e un sergente, e tutti guardavano lontano, davanti a sé, con occhio fisso, muti, preparati a veder da un momento all’altro biancheggiare fra gli alberi le divise degli avamposti nemici. Arrivarono così a una casetta rustica, circondata di frassini, davanti alla quale se ne stava tutto solo un ragazzo d’una dozzina d’anni, che scortecciava un piccolo ramo con un coltello, per farsene un bastoncino; da una finestra della casa spenzolava una larga bandiera tricolore; dentro non c’era nessuno: i contadini, messa fuori la bandiera, erano scappati, per paura degli Austriaci. Appena visti i cavalleggieri, il ragazzo buttò via il bastone e si levò il berretto. Era un bel ragazzo, di viso ardito, con gli occhi grandi e celesti, coi capelli biondi e lunghi; era in maniche di camicia, e mostrava il petto nudo.
– Che fai qui? – gli domandò l’ufficiale, fermando il cavallo. – Perché non sei fuggito con la tua famiglia?
– Io non ho famiglia, – rispose il ragazzo. – Sono un trovatello. Lavoro un po’ per tutti. Son rimasto qui per veder la guerra.
– Hai visto passare degli Austriaci? – No, da tre giorni.
L’ufficiale stette un poco pensando; poi saltò giù da cavallo, e lasciati i soldati lì, rivolti verso il nemico, entrò nella casa e salì sul tetto… La casa era bassa; dal tetto non si vedeva che un piccolo tratto di campagna. – Bisogna salir sugli alberi, – disse l’ufficiale, e discese. Proprio davanti all’aia si drizzava un frassino altissimo e sottile, che dondolava la vetta nell’azzurro. L’ufficiale rimase un po’ sopra pensiero, guardando ora l’albero ora i soldati; poi tutt’a un tratto domandò al ragazzo:
– Hai buona vista, tu, monello?
– Io? – rispose il ragazzo. – Io vedo un passerotto lontano un miglio.
– Saresti buono a salire in cima a quell’albero?
– In cima a quell’albero? io? In mezzo minuto ci salgo.
– E sapresti dirmi quello che vedi di lassù, se c’è soldati austriaci da quella parte, nuvoli di polvere, fucili che luccicano, cavalli?
– Sicuro che saprei.
– Che cosa vuoi per farmi questo servizio?
– Che cosa voglio? – disse il ragazzo sorridendo. – Niente. Bella cosa! E poi… se fosse per i tedeschi, a nessun patto; ma per i nostri! Io sono lombardo.
– Bene. Va su dunque.
– Un momento, che mi levi le scarpe. Si levò le scarpe, si strinse la cinghia dei calzoni, buttò nell’erba il berretto e abbracciò il tronco del frassino
— Ma bada…. — esclamò l’uffiziale, facendo l’atto di trattenerlo, come preso da un timore improvviso.
Il ragazzo si voltò a guardarlo, coi suoi begli occhi celesti, in atto interrogativo.
— Niente, — disse l’uffiziale; — va su.
Il ragazzo andò su, come un gatto.
— Guardate davanti a voi, — gridò l’uffiziale ai soldati.
In pochi momenti il ragazzo fu sulla cima dell’albero, avviticchiato al fusto, con le gambe fra le foglie, ma col busto scoperto, e il sole gli batteva sul capo biondo, che pareva d’oro. L’uffiziale lo vedeva appena, tanto era piccino lassù.
— Guarda dritto e lontano, — gridò l’uffiziale.
Il ragazzo, per veder meglio, staccò la mano destra dall’albero e se la mise alla fronte.
— Che cosa vedi? — domandò l’uffiziale.Il ragazzo chinò il viso verso di lui, e facendosi portavoce della mano, rispose: — Due uomini a cavallo, sulla strada bianca.
— A che distanza di qui?
— Mezzo miglio.
— Movono?
— Son fermi.
— Che altro vedi? — domandò l’ufficiale, dopo un momento di silenzio. — Guarda a destra.
Il ragazzo guardò a destra.
Poi disse: – Vicino al cimitero, tra gli alberi, c’è qualche cosa che luccica. Paiono baionette.
– Vedi gente?
– No. Saran nascosti nel grano.
In quel momento un fischio di palla acutissimo passò alto per l’aria e andò a morire lontano dietro alla casa.
– Scendi, ragazzo! – gridò l’ufficiale. – T’han visto. Non voglio altro. Vien giù.
– Io non ho paura, – rispose il ragazzo.
– Scendi… – ripeté l’ufficiale, – che altro vedi, a sinistra?
– A sinistra?
– Sì, a sinistra
Il ragazzo sporse il capo a sinistra; in quel punto un altro fischio più acuto e più basso del primo tagliò l’aria. Il ragazzo si riscosse tutto. – Accidenti! – esclamò. – L’hanno proprio con me! – La palla gli era passata poco lontano.
– A basso! – gridò l’ufficiale, imperioso e irritato.
– Scendo subito, – rispose il ragazzo. – Ma l’albero mi ripara, non dubiti. A sinistra, vuole sapere?
– A sinistra, – rispose l’ufficiale; – ma scendi.
– A sinistra, – gridò il ragazzo, sporgendo il busto da quella parte, – dove c’è una cappella, mi par di veder…
Un terzo fischio rabbioso passò in alto, e quasi ad un punto si vide il ragazzo venir giù, trattenendosi per un tratto al fusto ed ai rami, e poi precipitando a capo fitto colle braccia aperte.
– Maledizione! – gridò l’uffiziale, accorrendo.
Il ragazzo batté la schiena per terra e restò disteso con le braccia larghe, supino; un rigagnolo di sangue gli sgorgava dal petto, a sinistra. Il sergente e due soldati saltaron giù da cavallo; l’uffiziale si chinò e gli aprì la camicia: la palla gli era entrata nel polmone sinistro. – È morto! – esclamò l’uffiziale. – No, vive! – rispose il sergente. – Ah! povero ragazzo! bravo ragazzo! – gridò l’uffiziale; – coraggio! coraggio! – Ma mentre gli diceva coraggio e gli premeva il fazzoletto sulla ferita, il ragazzo stralunò gli occhi e abbandonò il capo: era morto. L’uffiziale impallidì, e lo guardò fisso per un momento; poi lo adagiò col capo sull’erba; s’alzò, e stette a guardarlo; anche il sergente e i due soldati, immobili, lo guardavano: gli altri stavan rivolti verso il nemico.
– Povero ragazzo! – ripeté tristemente l’uffiziale. – Povero e bravo ragazzo!
Poi s’avvicinò alla casa, levò dalla finestra la bandiera tricolore, e la distese come un drappo funebre sul piccolo morto, lasciandogli il viso scoperto. Il sergente raccolse a fianco del morto le scarpe, il berretto, il bastoncino e il coltello. Stettero ancora un momento silenziosi; poi l’ufficiale si rivolse al sergente e gli disse: – Lo manderemo a pigliare dall’ambulanza; è morto da soldato: lo seppelliranno i soldati. – Detto questo mandò un bacio al morto con un atto della mano, e gridò: – A cavallo. – Tutti balzarono in sella, il drappello si riunì e riprese il suo cammino.
E poche ore dopo il piccolo morto ebbe i suoi onori di guerra.
Al tramontar del sole, tutta la linea degli avamposti italiani s’avanzava verso il nemico, e per lo stesso cammino percorso la mattina dal drappello di cavalleria, procedeva su due file un grosso battaglione di bersaglieri, il quale, pochi giorni innanzi, aveva valorosamente rigato di sangue il colle di San Martino. La notizia della morte del ragazzo era già corsa fra quei soldati prima che lasciassero gli accampamenti. Il sentiero, fiancheggiato da un rigagnolo, passava a pochi passi di distanza dalla casa. Quando i primi ufficiali del battaglione videro il piccolo cadavere disteso ai piedi del frassino e coperto dalla bandiera tricolore, lo salutarono con la sciabola; e uno di essi si chinò sopra la sponda del rigagnolo, ch’era tutta fiorita, strappò due fiori e glieli gettò. Allora tutti i bersaglieri, via via che passavano, strapparono dei fiori e li gettarono al morto. In pochi minuti il ragazzo fu coperto di fiori, e ufficiali e soldati gli mandavan tutti un saluto passando: – Bravo, piccolo lombardo! – Addio, ragazzo! – A te, biondino! – Evviva! – Gloria! – Addio! – Un ufficiale gli gettò la sua medaglia al valore, un altro andò a baciargli la fronte. E i fiori continuavano a piovergli sui piedi nudi, sul petto insanguinato, sul capo biondo. Ed egli se ne dormiva là nell’erba, ravvolto nella sua bandiera, col viso bianco e quasi sorridente, povero ragazzo, come se sentisse quei saluti, e fosse contento d’aver dato la vita per la sua Lombardia.
VILLA LOMELLINI ( fonte Gian Pietro Scaglia )
Proprio al centro del paese, delimitato dalle vie Cavour, Veniali e Vittorio Emanuele 2°, esiste un ampio parco sul quale trovasi una bella villa quadrangolare, sormontata centralmente da una torretta terminante con una terrazza.
Limitrofi vi sono altri fabbricati aggiunti successivamente.
Il palazzo dovrebbe essere di costruzione secentesca con successive ristrutturazioni.
All’inizio del 1600 l’area dove ora sorge il fabbricato apparteneva ad un ramo dell’onnipresente (a montebello) famiglia Delconte.
Donna Aurelia, unica erede di Girolamo Delconte, sposava Giacomo Filippo Rossi detto “il Magnanino”, cittadino milanese, già Tenente di cavalleria, al servizio del conte Giovan Battista Panigarola. Dalla loro unione nasceva nel 1637 Andrea Rossi il quale, nella 2° metà del 1600, diventerà uno dei più facoltosi ed influenti personaggi di Montebello. Era costui un notaio ed aveva, dai feudatari spagnoli Felice Macado de Silva e Luisa Maria de Mendosa, la concessione di riscuotere per loro conto, i vari dazi allora in vigore. Sposò nel 1657, Anna Arzaghi, morì a Montebello il 21/11/1707 e fu sepolto in Chiesa, di fronte all’altare del Crocefisso, nell’avello dei Delconte-Rossi.
Sua unica erede fu la figlia Rosanna, la quale sposò nel 1690 il nobile Pietro Antonio Bellagente di Camporinaldo (Pavia). La così detta “mappa Teresiana” del 1723, l’area, oltre al “sito di casa”, già contempla, con disegno d’alberi ad alto fusto, anche il parco, mentre nello schizzo in carboncino illustrante Montebello a quei tempi e situato in fondo ad una grande mappa settecentesca, è chiaramente visibile la torretta della villa.
Donna Rosanna morì a Camporinaldo nel 1728, mentre sua madre Anna Arzaghi campò fino a 97 anni, cessando di vivere in Montebello, l’8/11/ 1732. Il N.H. Giovanni Andrea, figlio di Rosanna, ereditò la Villa e così, di padre in figlio, la famiglia Bellagente ne rimarrà proprietaria fino al 1829, quando Giuseppe, indicato nell’atto notarile come Cavaliere e Guardia Nobile di S.M. l’Imperatore d’Austria, vendette ad Antonio Bottigella, di nobile famiglia pavese, villa e parco (oltre alla vicina cascina detta “il Belvedere” ed a parecchi altri terreni).
Questi, a sua volta, nel 1838, rivende il tutto al marchese Stefano Centurioni (definito Gentiluomo di Camera di S.M. il Re di Sardegna alla Corte di Genova), il cui fratello Luigi possedeva a quel tempo la villa di Torrazzetta. Nel 1847 la proprietà passa al marchese Giuseppe Lomellini (1818-1889), Tenente di Vascello e Patrizio Genovese, il quale nel 1857 restaura completamente la Villa.
Durante la battaglia del 20 maggio 1859, il fabbricato subisce notevoli danni per la resistenza delle truppe austriache asserragliate al suo interno.
Nel 1889, alla morte del marchese Giuseppe, la proprietà passa al figlio Gianni. Era costui una persona di notevole cultura, parlava correttamente alcune lingue ed usava le più moderne tecnologie. Sua, infatti, è stata la prima macchina fotografica apparsa a Montebello e così pure la prima automobile ed il primo telefono privato. Ha inoltre scritto un libro sulla battaglia di Montebello ed è stato per 20 anni, dal 1890 al 1910, sindaco del paese.
Per divergenze politiche, poco dopo la fine della 1° guerra mondiale, il marchese Gianni Lomellini lasciò Montebello e nel 1924 vendette la villa (morì nel 1935 a 91 anni) alla società anonima “Comm. Quirici Girolamo e Figlio” di Rivanazzano, la quale vi installò una filanda nelle dipendenze, dopo averle sopraelevate di un piano, portandole così ad altezza maggiore della Villa e rovinandone irrimediabilmente la prospettiva.
Dopo pochi anni anche il parco corse il pericolo di sparire in quanto stava per iniziare nel suo ambito la costruzione di un grande stabilimento per la lavorazione della seta, ma si salvò all’ultimo momento grazie all’acqua, rivelatasi alle analisi, estremamente calcarea e quindi inadatta a quel tipo d’industria.
Nel 1932, Don Orione in persona, su suggerimento e con aiuto economico dell’allora Parroco di Montebello, don Giuseppe Bruno, acquistò il complesso per destinarlo a seminario. Nel 1940, dopo la morte di Don Orione, in quella che era stata la sala da pranzo dei marchesi Lomellini (pavimento in mosaico genovese con stemmi Lomellini e Lamba Doria e soffitto a cassettoni in stucco decorato) si è tenuto il 1° Capitolo Generale della Congregazione e l’elezione di don Sterpi a capo della stessa.
Nell’immediato dopoguerra, la costruzione dei capannoni in mattoni a vista sul lato nord del cortile, ha ulteriormente degradato la bellezza di quella che era stata un’antica tenuta di campagna.
Verso la fine degli anni ‘980, intelligenti restauri alla Villa, hanno finalmente interrotto un declino che era in atto da quasi 70 anni. Purtroppo il parco, un tempo rigoglioso, è stato invece notevolmente impoverito in questi primi anni del 2000.